Seleziona una pagina

BOLKESTEIN E CONCORRENZA: TRA DERUGULATION, “EMERGENZA” GIUDIZIARIA E VUOTO DELLA POLITICA

Regole che non ci sono e regole che non funzionano

La concorrenza, tra i principi cardine del diritto UE, appare oggi sempre più un vincolo imperativo, che crea più problemi di quanti ne risolva e che scardina economia ed imprese, svalutando i salari, i redditi e delocalizzando la produzione.

 Certamente, se la concorrenza è un principio secondo il diritto euro-unitario, non lo è nel medesimo senso in cui lo sono i “principi” di libertà di iniziativa economica, di libertà di espressione, di sovranità della legge e via dicendo. La concorrenza può sì essere ritenuta un “principio”, ma è un principio che designa un bene giuridico peculiare, non un bene-fine come sono invece quelli che attengono alla tutela della persona umana, bensì un bene- mezzo, quindi un bene da “regolare” subordinandolo ad altri principi (adeguatezza e proporzionalità, per esempio). Del resto nei Trattati europei si afferma che “l’UE ha competenza esclusiva nei seguenti settori: …b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno” (art. 3 TFUE). Si parla cioè di “regole” che sono evidentemente “necessarie” per poter assicurare la fruizione del bene-concorrenza.

Ma proprio qui nasce il problema. Mentre i principi che designano un bene-fine svolgono di per sé un ruolo costituzionale, cioè costitutivo o costruttivo dell’ordine giuridico, possono cioè produrre qualcosa che è al di fuori di essi, i principi che designano un bene-mezzo come la concorrenza, non possono farlo avendo bisogno di regole. E le regole, essendo soltanto leggi rinforzate dalla loro forma speciale, non hanno o non dovrebbero avere di per sé alcuna portata espansiva.

Il fatto è però che nel sistema giuridico europeo le regole hanno assunto una portata espansiva imprevista ed inarrestabile. Ma proprio queste regole, nella realtà globale in cui la portata dei cambiamenti tecno-economici sembra imporre come  “normale” una dimensione macro delle imprese,  superiore ai confini ed alle sovranità statuali, non riescono più ad impedire  i comportamenti economici collusivi, predatori o monopolistici – cioè anticoncorrenziali – che sono il risultato naturale dell’operato degli enormi capitali finanziari che rivendicano per sé una libertà assoluta  nella  spasmodica ricerca di investimenti  funzionali alla moltiplicazione indefinita del PIL.    

E perché le regole della concorrenza, pur sempre più necessarie, non funzionano e non possono funzionare? Semplicemente perché la forza espansiva delle regole – a differenza di quella dei principi – è tanto maggiore quanto più la regola è negativa, quanto più essa impone cioè un obbligo di non fare o un divieto di fare, cioè quanto più la regolazioneè una deregulation.  All’interno dello strano mondo dell’UE, la regolache meglio funziona finisce per essere quella che non c’è, la regola che elimina le regole.

Nel mondo della globalizzazione selvaggia è in effetti facilissimo – semplicemente deregolando – assicurare la concorrenza, se intesa in senso puramente soggettivo quale regime nel quale è assicurata a ciascun soggetto la libertà di iniziativa economica: nel caso delle concessioni basta applicare l’art. 49 TFUE che proibisce ogni divieto alla libertà di stabilimento e l’art. 12 della Direttiva Bolkestein sulle procedure di selezione quando vi è scarsità di risorse. Molto più difficile è invece assicurare la concorrenza in senso oggettivo, generando un regime in cui la presenza sul mercato di una pluralità di operatori, fa sì che le condizioni di mercato non siano influenzate da uno solo di essi. Sarebbe, questa, una condizione da garantire in permanenza. In questo senso, necessitano regole positive: quelle che non abbiamo.

Insomma, venendo al nostro tema, non è certo rimuovendo le restrizioni che impediscono le gare per le concessioni balneari a tutti i potenziali concorrenti europei che si assicurerebbe tout court un sistema concorrenziale funzionante ed efficace. Ci vuole ben altro.

Due concorrenze diverse

Se si parla di regole della concorrenza bisogna poi fare un’altra premessa (valida anche per le concessioni balneari). La concorrenza, nel nostro caso, non mira certo a far diminuire i prezzi dei servizi di spiaggia, come sostengono alcune “anime belle”. C’è una “leggenda mediatica” ampiamente accreditata, per cui la concorrenza che si realizza descritta in termini di “concorrenza astratta e statica”, sarebbe quella per cui l’operatore economico organizza la propria impresa adeguandosi al prezzo fissato dal mercato, che, a sua volta, con la sua “mano invisibile” spinge l’operatore economico a ridurre i costi e quindi i prezzi e ad  impiegare meglio  risorse e tecnologia, modellandosi sull’ impresa ottimale, aumentando l’offerta e massimizzando così il surplus del consumatore.

La concorrenza “reale e dinamica”, con cui abbiamo a che fare, in realtà è tutt’altra cosa. Essa non mira a realizzare l’adeguamento passivo dell’impresa ai prezzi di mercato, bensì a stimolare attività di innovazione e di riorganizzazione, col fine di far guadagnare all’imprenditore quote di mercato appropriandosi di vantaggi nei confronti degli altri operatori. I prezzi, in questo caso, non sono più dati esogeni rispetto all’impresa, ma dati condizionati dalle attività delle imprese più competitive che ovviamente, nel caso del turismo balneare, possono operare sulla domanda, attraendo clientele caratterizzate da capacità di spesa più elevata. Effetto di questa concorrenza non è affatto il surplus del consumatore (il calo dei prezzi a parità di prestazione) ma la spinta competitiva che spinge a migliorare la performance tramite innovazioni che mirano alla conquista di nuove quote di mercato anche con una sostituzione di consumatori.

È proprio quest’ultima la concorrenza di cui si parla quando ci si riferisce alle concessioni balneari attuali, cui si imputa la responsabilità del “quieto vivere” di un sistema di imprese prive di intrinseca motivazione a crescere e ad innovare entro un sistema che preferisce la coesistenza alla concorrenza.

Ed è qui che c’è bisogno delle “regole” che assicurino e garantiscano una “vera e corretta concorrenza”, più che la “tutela del consumatore”, la quale finisce per essere uno slogan vuoto, ingannevole e fuorviante.

 Deregulation e “attivismo giudiziario” come vie di uscita

Ci dobbiamo porre alcune domande. L’applicazione della Direttiva Bolkestein si presenta come una decisa deregolamentazione, sulla base dell’art. 49 TFUE e dell’art. 12 della Direttiva Bolkestein. Ma basta una semplice deregulation che apra la strada ad aste libere senza limiti di investimento come sembra essere lo scenario aperto attualmente? Come anche la stampa ha notato, grazie alla mancanza di limiti, generali e nazionali, di attribuzione di concessioni ad ogni singolo gruppo, limiti non previsti nel cd. Decreto Infrazioni (D.L. n. 131/ 20 settembre 2024), si può agevolmente ipotizzare che “di quelle omissioni si avvantaggeranno grandi gruppi anche internazionali del turismo, provvisti di deep pockets (Gustavo Ghidini, Balneari concorrenzabeffata?, Corriere della Sera 8 settembre 2024, p. 24).

È la regolazione europea ridotta ormai, in questo come in altri campi, ad una radicale deregolamentazione.  Così ha operato ed opera il collaudato meccanismo della integrazione negativa per cui la Corte di Giustizia Europea interpreta in maniera estensiva le regole dei trattati europei, dei regolamenti europei e persino quelle delle “direttive” quando esse sono qualificate self executing o auto applicative, come la Direttiva Bolkestein, e quando prevedono un obbligo negativo o un divieto di fare.

 Ma questa deregolamentazione apre enormi problemi, perché il mercato, come la natura, rifiuta il vuoto, poiché nel vuoto si inseriscono i più spregiudicati “corsari” dell’economia e della tecno-finanza, che guardano con simpatia e favore ogni abolizione di “lacci e laccioli” secondo il mantra recitato dai politici inconsapevoli ma in servizio attivo permanente.

In effetti, la normativa europea, ispirata alla deregolamentazione come essenziale principio ultraliberista, pare accettare il postulato non dimostrato secondo cui la concorrenza pura è la condizione naturale verso cui tende l’economia se essa non è ostacolata da restrizioni legali. Ma chi può impedire che il gioco spontaneo delle forze endogene di mercato conduca a far prevalere i poteri privati più capaci di dominio e più potenti?

Se non basta una deregolamentazione, e se un diritto della concorrenza fondata esclusivamente sulla efficienza del mercato senza il supporto di politiche industriali ed economiche continentali finisce per soffocare le politiche economiche dei singoli Stati, significa che una reale concorrenza europea non può fare a meno del principio della sussidiarietà, e cioè delle legislazioni degli Stati membri, che i Parlamenti nazionali, secondo l’art. 12 TUE, dovrebbero far valere.

Vuol dire cioè che necessitano altre regole, oltre quelle europee. Che piaccia o meno a quelli dei “lacci e laccioli” e della deregulation. Ma quali regole allora?

C’è un giudice alla Corte del Lussemburgo!

Che ci vogliano regole stabilite dalla politica e non dalla giurisdizione, una volta tanto, è persino il giudice europeo che lo dice.  I giudici e la giustizia amministrativa non possono far tutto, la via giudiziaria alla costruzione europea per la via della rimozione delle regole, avviatasi negli anni ottanta, ha creato purtroppo illusioni e malintesi. Ha in effetti realizzato, attraverso la straordinaria tendenza espansiva del diritto amministrativo, quella integrazione negativa che tanti effetti negativi ha prodotto e a lungo andare “ha frammentato” l’Europa. È proprio il giudice europeo della CGUE che ha riconosciuto, in una sentenza pregiudiziale, in relazione alla questione delle concessioni balneari italiane, il limite invalicabile dell’operato delle regole europee e della giurisdizione europea. Cioè ha riconosciuto i propri limiti.

Lo ha affermato con chiarezza con la sentenza del CGUE  del 20 aprile 2023 pronunciandosi in merito all’applicabilità dell’art. 12 della Direttiva 123/2006 e precisando, in aperta difformità con la sentenza del Consiglio di Stato  italiano  del 20 ottobre 2021  che la scarsità della risorsa spiaggia (da cui dipende l’obbligo della evidenza pubblica) è il risultato di una valutazione che non può esser fatta da un organo giudiziario, ma che è competenza discrezionale di un organo politico, essendo oggetto della politica economica del singolo Stato.

 I punti 46 e 47 della Sentenza europea sono chiarissimi in merito: (46) “…l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123 conferisce agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali. Tale margine di discrezionalità può condurli a preferire una valutazione generale e astratta, valida per tutto il territorio nazionale, ma anche, al contrario, a privilegiare un approccio caso per caso, che ponga l’accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune o dell’autorità amministrativa competente, o addirittura a combinare tali due approcci”.

Non a caso, del resto, la tutela della concorrenza è, in Costituzione, materia di pertinenza dello Stato nazionale, che è evidentemente competente a introdurre norme certo non contrastanti con quelle euro-unitarie.

Ed ancora per quanto attiene alle concessioni demaniali marittime sempre il giudice del Lussemburgo in più sentenze ha affermato una sorta di irretroattività del diritto comunitario in relazione a rapporti giuridici instaurati anteriormente ed a tempo indeterminato o poliennale. Ciò potrebbe essere applicato anche alla direttiva Bolkestein per le concessioni rilasciate successivamente al 28 dicembre 2009 che è la data di trasposizione della Direttiva Servizi 2006/123/CE.

Secondo la giurisprudenza europea, infatti, “il diritto comunitario non impone ad un’amministrazione aggiudicatrice di uno Stato membro di intervenire, su domanda di un singolo, in rapporti giuridici in essere, instaurati a tempo indeterminato o con durata pluriennale, qualora tali rapporti siano stati posti in essere prima della scadenza del termine di trasposizione (28/12/2009) della direttiva 92/50”. Così ha fatto rilevare la Sentenza del TAR Toscana sez. IV 27 febbraio 2025, da cui questo passo a p. 7, intervenendo su una controversia concernente i termini di scadenza di una concessione balneare nel Comune di Forte dei Marmi.

“Emergenza” all’ italiana: tra l’incudine e il martello

Il fatto è che la questione concessioni balneari è, soprattutto in Italia, Paese di un’illustre tradizione di turismo balneare, materia complessa e difficile da normare, dato che vi si intrecciano aspetti molteplici del diritto, dal Codice della navigazione al Codice civile, dal diritto costituzionale al diritto amministrativo, passando per la legislazione degli Enti locali e la questione demaniale. La via più facile, percorsa per decenni, è stata quella di rimandare e prorogare. Oppure, procedere per via giudiziaria a colpi di sentenze di disapplicazione delle proroghe. L’incudine dell’inerzia normativa delle proroghe e il martello delle sentenze giudiziarie, una emergenza permanente insomma per le imprese del settore! Fino al caso più recente della Sentenza del TAR Liguria Reg. 257/2024 del 10 gennaio 2025, che, in merito al contenzioso tra alcuni concessionari ed il Comune di Zoagli ha dichiarato la disapplicazione della ulteriore proroga governativa delle gare  al settembre 2027: “E ciò sia perché non risulta esistente un documento scritto racchiudente tale patto; sia in quanto, in ogni caso, un simile accordo non potrebbe prevalere sul dictum della Corte di Giustizia in ordine all’incompatibilità unionale del rinnovo automatico delle concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative […] essendo la Curia europea l’organo deputato all’interpretazione autentica del diritto euro-unitario, con effetti vincolanti sia nei confronti delle autorità nazionali che delle altre istituzioni dell’Unione” (p. 3 della Sentenza).

D’altronde, anche l’ultimo decreto in materia, il cd. “Decreto infrazioni” (D.L. n. 131/ 20 settembre 2024), purtroppo, per ammissione diffusa, non fornisce ancora il quadro normativo nazionale necessario per consentire a Regioni ed Enti locali di predisporre bandi pubblici in modo organico, coerente, certo localmente diversificato, ma non contraddittorio, in modo da evitare il più che probabile “far west” giurisprudenziale.

Mancano i criteri nazionali in primo luogo per la definizione della scarsità della risorsa (criteri nazionali unici o differenziati per aree regionali o subregionali?), mancano i  parametri generali di valutazione delle offerte,  mancano soprattutto i  limiti quantitativi del numero di concessioni per singolo concorrente e magari anche l’ampiezza delle  concessioni stesse,  mancano criteri equi  e giuridicamente sostenibili  per la quantificazione  degli indennizzi per i concessionari uscenti, manca la gerarchia generale dei parametri di valutazione dei progetti, come anche una definizione più stringente dei vincoli ambientali funzionali alla tutela del patrimonio turistico. storico e paesaggistico, entro cui calibrare i piani di investimento.

Che il livello statale debba intervenire anche in modo stringente sulla normativa per regolare le gare discende direttamente anche dagli obblighi costituzionali. La stessa Corte Costituzionale ha riconosciuto che “la tutela necessaria, ai fini della conservazione ambientale e paesaggistica così individuata, sul piano legislativo, non può che essere di spettanza statale. Una volta ricondotta quella “conservazione” all’ambiente – alla materia ambiente – è sufficiente, a tal fine, la piana lettura dell’art. 117, co. 2, lett. s), Cost. In effetti, la Corte, riconosciuto che «sul territorio gravano più interessi pubblici», non ha dubbi nello stabilire che la «cura» di «quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica» spetta «in via esclusiva allo Stato”[1].

       .

Una quadratura del cerchio?

 Si è sostenuto fino alla nausea che l’applicazione della Bolkestein alle concessioni balneari implicava la scelta drastica tra la difesa della “corporazione” o “lobby” dei balneari, una sorta di sospensione delle leggi di mercato a vantaggio esclusivo di una categoria, e l’ottemperanza ad una normativa europea che avrebbe assicurato con la mobilità di imprese e di lavoratori una riduzione dei costi e dei prezzi. Due narrazioni fuorvianti e tendenziose che non mettono a fuoco la più profonda ragione dell’impasse.

L’attività turistica – o meglio, in questo caso, turistico-ricreativa – tra cui rientra la gestione delle concessioni balneari, non è, al pari di un servizio di trasporto pubblico o di una concessione per attività di gestione di una infrastruttura stradale, un’attività che deve rispondere soltanto a criteri di efficienza, produttività e profitto, garantiti da una concorrenza vera. Lo stesso commissario Bolkestein aveva espresso dubbi persino sulla estensibilità della direttiva alle concessioni demaniali.

È anche altro. È un’attività di impresa che deve garantire il rispetto di un corposissimo insieme di interessi pubblici e collettivi essenziali, quali la tutela del paesaggio, del patrimonio nazionale storico e artistico, dell’ambiente  della biodiversità e degli ecosistemi e persino, in una certa misura, della salute come bene collettivo (così, per tutelare la salute,  in alcune parti d’ Italia si era diffusa la consuetudine della villeggiatura al mare per le famiglie di modeste capacità finanziarie), molti dei quali sono anche tra i principi fondamentali elencati all’articolo 9 della Costituzione e la cui tutela è di esclusiva competenza statale per il tramite di Parlamento e governo nazionale. Tutt’altro che semplice riformare organicamente una normativa tanto polimorfa e articolata, senza danneggiare economia e società.

In qualche modo, le vecchie concessioni, oltre a produrre profitti tutelavano queste esigenze, conservavano quanto meno inalterato l’ambiente. Come tutelare oggi queste esigenze senza coartare le dinamiche delle innovazioni necessarie? Si rende necessaria la revisione organica di un’ampia materia. Bisognerebbe poi forse, come credo sia stato proposto, andare oltre lo strumento un po’ arcaico della vecchia concessione  – visto come atto di sovrana benevolenza che accorda una prerogativa o un privilegio, poi però privato di quella unilateralità e “sdoppiato” in una  concessione-contratto – con una regolazione più paritaria di obblighi e diritti trasformando la concessione discrezionale in autorizzazione vincolata per utilizzare preferibilmente un istituto dal profilo decisamente più moderno ed europeo quale il cosiddetto partenariato pubblico privato.

Come noto, il partenariato pubblico/privato è un complesso istituto giuridico di matrice europea che identifica modelli di cooperazione tra amministrazioni pubbliche e imprenditori privati, aventi ad oggetto il finanziamento o la realizzazione di una infrastruttura o la gestione o la fornitura di un servizio o lo svolgimento di un compito pubblico.

Esso consentirebbe di tenere insieme l’attività di gestione privata della concessione con una più adeguata definizione degli obiettivi di carattere pubblico da raggiungere, in attuazione del principio di solidarietà orizzontale di cui all’ art. 118 comma 4 della Costituzione. Si potrebbe agevolmente conciliare l’esigenza di una apertura alla concorrenza con la possibilità di una continuità, in un certo numero di casi, con le gestioni precedenti, laddove esse siano in grado di garantire gli investimenti necessari alla innovazione sostenibile.

In effetti, col partenariato contrattuale, nella tipologia della finanza di progetto disciplinata dal Codice dei contratti pubblici del 2023 (artt. 183 comma 15 e segg.) si prevede che se il promotore non risulta aggiudicatario, può esercitare, entro quindici giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, il diritto di prelazione e divenire aggiudicatario, ove dichiari di impegnarsi ad adempiere alle obbligazioni contrattuali alle medesime condizioni offerte dall’aggiudicatario.

Il partenariato,  invece della semplice concessione, consentirebbe quindi contemporaneamente di ottemperare alla normativa europea di vere gare ad evidenza pubblica e di dare garanzia anche agli imprenditori balneari capaci e disposti ad innovare, già presenti sugli arenili, di continuare ad operare col vincolo di tutelare, al di là delle fumoserie retoriche (spiagge libere, diminuzione dei prezzi dei servizi di spiaggia ecc.) una pluralità dettagliata di interessi pubblici, legati alla attività turistico ricreativa.

Una “concorrenza” che salvi il paesaggio, il territorio, la comunità ed anche il PIL

Le nuove concessioni o i partenariati dovrebbero garantire, molto più di quelle di un tempo, gli interessi pubblici del territorio per un motivo molto semplice. Gli arenili delle coste sono parte di paesaggio, e di ambiente. Sono beni della comunità che ne può fruire attraverso i servizi ad essa offerti. E l’attività turistica deve tutelare anche beni che non sono economici, come ad esempio un oggetto di architettura liberty; deve assicurare il mantenimento di una tradizione locale collettiva, la sussistenza di una comunità locale che interagisce col flusso turistico e la cui presenza è motivo e incentivo della domanda turistica. Se il meccanismo della concorrenza tende di per sé a creare situazioni di omogeneità ed a conformare secondo modelli standard investimenti e strutture, l’attività turistica mira a salvaguardare la differenza, l’identità locale e l’eterogeneità. E c’è il pericolo che le forze di mercato abbandonate a se stesse distruggano queste diversità. È il motivo per cui oggi le comunità locali rischiano di disgregarsi in conseguenza di una esplosione dei flussi turistici.

È ciò che oggi dimostrano le proteste in molte aree d’Europa e d’Italia delle comunità che contestano il turismo non sostenibile – il cosiddetto “overtourism” – che genera radicali stravolgimenti dell’ambiente e del suo profilo urbanistico e sociologico. Esso crea dovunque quelli che Marc Augé definisce i “non-luoghi”, cioè i luoghi privi di identità umana, come sono i tanti “resort” costruiti come scenari hollywoodiani completamente estranei alla storicità dell’ambiente ed alla vita concreta della comunità locale, col risultato parallelo di una lievitazione della rendita edilizia e dei prezzi da un lato e della crescente invivibilità dell’habitat per i residenti e la loro progressiva espulsione dall’altro.

In realtà non vi è società che non si fondi su comunità umane che ad essa preesistono, e non c’è comunità che non abbia bisogno di articolarsi su un “territorio” che non sia uno spazio astratto e svuotato di simboli identitari.  Non è invece un caso che l’ultraliberismo prediliga un astratto ed omogeneo  spazio normativo  al posto del territorio su cui insiste ogni vera comunità politica, dato che nello spazio giuridico astratto il mercato resta l’unico elemento ordinatore, anche se a prezzo di realizzare quegli aggregati umani casuali e regolati dalla legge del più forte, come mostra il dilagare della microcriminalità e del degrado umano nelle periferie urbane ma anche nelle aree europee più soggette al turismo balneare massificato. Difatti, uno spazio si distingue da un territorio poiché quest’ultimo incorpora, accanto alla vita economica dei cittadini, la presenza o l’aspettativa di forme di solidarietà.

Non è un caso che inizi a comparire, nelle aree urbane oggetto di flussi turistici straordinari, un nuovo problema paneuropeo: l’EMERGENZA e la POVERTÀ ABITATIVA delle persone e delle famiglie persino di “ceto medio”, impossibilitate per motivi economici ad un accesso all’alloggio nelle aree urbane. Una situazione paradossale e grave, comprovata dall’appello dei sindaci di dieci città europee – tra cui Roma. Barcellona e Parigi – del dicembre 2024 alla Commissione Europea.

Ripetiamolo: la concorrenza non si garantisce cambiando ogni tanto i concessionari, ma introducendo regole chiare e stringenti che garantiscano un “mercato corretto”, al riparo da concentrazioni finanziarie più o meno mascherate, assicurando una tutela della sostenibilità ambientale, ma anche delle comunità umane insediate sul territorio, eredi dei “pionieri” della costruzione delle infrastrutture turistiche dell’ Italia e soprattutto custodi di tradizioni storiche, regionali e locali, che sono essenziali anche per salvaguardare le basi di una “concorrenza turistica e culturale” che non ha solo fondamenta economiche, ma mette in gioco ancor prima dei valori monetari, valori culturali non mercificabili, non replicabili e non trasferibili, come la bellezza paesaggistica, architettonica o culturale.   È questo ciò che le procedure ad evidenza pubblica dovrebbero garantire.

Umberto Baldocchi

Dottore di ricerca in storia del federalismo e dell’unità europea

[1] Rosanna Fattibene, L’evoluzione del concetto di paesaggio tra norme e giurisprudenza costituzionale dalla cristallizzazione all’identità in: Federalismi.it. 18 maggio 2016, p. 13